Il caso Monitori and Others c. Georgia: l’estensione dell’art. 10 Cedu tra conferme e incognite
di Mario Filice
Con la pronuncia Monitori and Others c. Georgia (App. no. 44929/09 and 8942/10) del 30 gennaio 2020, la Corte europea dei diritti dell’uomo torna a esprimersi sull’interpretazione dell’art. 10 Cedu e, in particolare, sul rapporto tra la libertà d’espressione e il diritto di accesso alle informazioni.
Il caso trae origine da una richiesta di un giornalista – per conto di una ONG di cui è fondatore – volta a ottenere l’accesso a un fascicolo di un procedimento penale. Il diniego opposto dalla Corte distrettuale georgiana era stato impugnato davanti agli organi giurisdizionali che, sia in prima istanza sia in appello, avevano rigettato la richiesta di annullamento. La questione è giunta così davanti alla Corte europea.
Nella decisione, in linea con i recenti orientamenti (v. Magyar Helsinki Bizottság v. Hungary, 8 novembre 2016), si afferma che, sebbene l’art. 10 Cedu non preveda un obbligo generale agli Stati di rilasciare le informazioni detenute da una pubblica amministrazione a seguito di una richiesta di accesso, il correlativo diritto in capo all’istante sorge nei casi in cui la divulgazione sia imposta da un ordine giudiziale o quando essa sia strumentale alla tutela della libertà di espressione.
Al fine di verificare se (e in qual misura) il diniego dell’accesso costituisca una interferenza ingiustificata con tale libertà, i giudici di Strasburgo hanno affermato che occorre valutare le circostanze del caso concreto alla luce di quattro criteri: a) lo scopo della richiesta; b) la natura delle informazioni; c) il ruolo del richiedente, e in particolare la sua connessione con il dibattito pubblico; d) la disponibilità corrente delle informazioni.
Nel caso di specie, pur essendo la qualifica di giornalista compatibile con la necessità di alimentare il dibattito pubblico, la Corte ha accordato rilievo alle seguenti circostanze: i) che la richiesta fosse stata formulata in termini generici e l’istante si fosse rifiutato di collaborare con l’autorità nazionale, che si era invece resa disponibile a riconsiderare il rifiuto in caso di integrazione della domanda con i dovuti chiarimenti; ii) che anche in assenza delle informazioni richieste l’indagine giornalistica era stata portata a termine; iii) che l’accesso riguardasse atti di un procedimento penale per corruzione e il carattere pubblico delle persone coinvolte non fosse di per sé sufficiente a giustificare la divulgazione, anche considerato il carattere riservato di alcuni documenti in base alla legislazione nazionale.
La prudenza dell’orientamento dei giudici di Strasburgo nel riconoscere un autonomo diritto all’informazione in base all’art. 10 Cedu lascia alcune domande aperte. Se il giornalista avesse collaborato con l’amministrazione in prima istanza o dimostrato che i documenti richiesti fossero necessari a garantire un dibattito informato su una questione rilevante di interesse pubblico, l’esito sarebbe stato lo stesso? Quale sarebbe stata la decisione se la domanda fosse stata presentata a procedimento concluso e avesse riguardato solo alcuni documenti – magari quelli di maggior interesse pubblico – non coperti da segreto in base alla normativa nazionale?
La rilevanza di questi interrogativi lascia presumere che la questione del pieno riconoscimento del diritto alla conoscenza sia destinata a ritornare presto all’attenzione della Corte europea dei diritti dell’uomo.